image_pdf

di Guido Rilletti

Sono cent’anni che il 2 dicembre il 1923 nasceva a New York quella che doveva diventare, non solo la cantante più famosa, ma, per un decennio, la donna più famosa del mondo. L’occasione è stata colta dall’industria editoriale riempiendo le vetrine natalizie delle librerie di nuove edizioni e riedizioni sull’argomento Callas. Prima e dopo l’era Callas la storia dell’opera è zeppa di cantanti oggetto di fanatismo da parte di pubblico e critica, ma nessuno di loro oggi gode di una fortuna paragonabile a quella callasiana.

La bibliografia curata da Jacopo Pellegrini in nota all’ottimo Mille e una Callas (Quodlibet 2016) recita: “Chi fosse interessato a perdersi nel labirinto cartaceo intitolato a Maria Callas (libri, opuscoli, periodici, dispense, tesi di laurea) può rivolgersi alla sterminata “Maria Callas bibliography (1008 documenti), all’indirizzo internet http://www.Callas-club.de. “

Il perché va cercato non nella biografia dei cantanti, ma nel fatto che il suo avvento ha cambiato la storia della fruizione musicale e la nascita dell’archeologia operistica.

Nascita dell’archeologia operistica

Solo collegando il fenomeno Callas con la storia che l’ha preceduto e seguito, è possibile farsene un’idea appropriata che si può così sintetizzare: il fenomeno Callas è l’epicentro di un terremoto culturale che ha due aspetti: l’esaurirsi della produzione di novità operistiche intorno al 1950, e la nascita dell’archeologia operistica. L’uno non sarebbe nato senza l’altro.

Dal 1700 al 1848 l’Italia aveva prodotto una cinquantina di partiture operistiche nuove all’anno. Moltissime non andavano oltre il primo allestimento, ma alcune, dopo folgorante successo, come Il Barbiere di Siviglia a Roma nel 1816 o Lucia di Lammermoor a Milano nel 1835, non uscirono più dal repertorio.

Tuttavia, nonostante il repertorio andasse sempre più ingrossandosi nella seconda metà dell’Ottocento, soprattutto grazie ai capolavori verdiani, la novità assoluta rimase qualitativamente l’evento principe di ogni stagione operistica, come mostrano tutte le prime pucciniane, fino a Turandot nel 1924. Questo fu l’ultimo titolo ad entrare stabilmente nel repertorio, ma allora non lo si sapeva, e fino alla Seconda Guerra Mondiale, pubblico, impresari ed editori continuarono ad attendere il nuovo profeta che, dopo Puccini, continuasse a scendere dal Sinai con tavole della legge sottoforma di opera lirica.

Nel dopoguerra alla Scala, dopo lo storico concerto toscaniniano di riapertura dell’11 maggio 1946, seguirono cinque stagioni, prima del folgorante arrivo della Callas, dove le speranze di ripresa del meccanismo produttivo furono affidate rispettivamente a: L’Oro di Pizzetti e Siberia di Giordano; Resurrezione di Alfano e Gli Incatenati di Renzo Bianchi nel 1948; La Sacra Rappresentazione di Abraham e d’Isaac di Pizzetti, Regina Uliva di Sonzogno e Il Cordovano di Petrassi nel 1949; Kraskornikov di Sutermeister e L’Orso Re di Luigi Ferrari-Trecate nel 1950; Il Console di Menotti e La Collina di Peregallo nel 1951.

È sintomatico dello scossone in arrivo che nessuna di queste opere, né allora né dopo, fece gridare al Messia ritrovato, pertanto è legittimo supporre che, alla coscienza non solo dei più avvertiti, ma a quello che Hegel chiamava lo spirito del tempo, fosse maturata la convinzione di essere giunti all’esaurimento della vena aurifera che aveva alimentato il teatro d’opera per tre secoli e mezzo.

 

In questo contesto irrompe il fenomeno Callas che, nella sua essenza, non consisté nel cantare meglio o peggio le opere di repertorio, in divistica competizione delle prime donne rivali, ma:

  • Nell’introdurre nel repertorio opere desuete (nel 1951, il suo primo anno alla Scala, cantò i Vespri Siciliani di Verdi presente nel Teatro solo nel 1909, dopo la prima del 1864 e il Ratto dal Serraglio di Mozart, novità assoluta per il Teatro).
  • Nel restaurare le opere belcantiste ancora in repertorio, sconciate dalla tradizione, tramite la tecnica vocale dell’età del belcanto.

 

Il fenomeno Callas quindi è un evento musicologico, che coincide con la fine del sistema produttivo operistico, fondato sulla alternanza di novità e repertorio, nonché con la nascita di un nuovo sistema produttivo, fondato sull’alternanza di “riscoperta e repertorio. 

Dall’apparizione della Callas negli anni Cinquanta, per almeno trent’anni, le stagioni operistiche hanno avuto il proprio baricentro non più nell’attesa messianica della novità assoluta, ma nella pioneristica nella pioneristica novità relativa alla  “riscoperta” del continente belacantistico centrato dapprima sulla trinità Bellini – Rossini – Donizetti, allargato poi a Monteverdi, Vivaldi e Haendel.

Altra conseguenza musicologica fu che, sulla scia delle interpretazioni callasiane di Macbeth e Nabucco, ne seguì la rivalutazione della produzione giovanile verdiana, seppellita fino allora sotto l’infame epiteto di “anni di galera” da una critica verdiana, che leggeva Verdi secondo il metro del “dramma musicale” Wagneriano, Massimo Mila in testa. Per sette anni la Callas inaugurò la Scala: nel dicembre 1951 con i Vespri Siciliani, nel 1952 con il Macbeth; nel 1953 con Medea; nel 1954 con la Vestale; in aprile canta Alceste; nel 1955 con Norma, poi canta Sonnambula nel marzo 1957, in aprile Anna Bolena, in giugno Ifigenia in Tauride; nel 1958 il Pirata; nel 1960 inaugura la Scala col Poliuto, nel 1961 inaugura per l’ultima volta la Scala con Medea di Cherubini.

Tutte queste opere, tranne Norma, raramente e malamente eseguita, erano “riscoperte”, che, grazie ai successi callasiani, sono entrate in repertorio.

Nell’Ottocento il Macbeth di Verdi era stato allestito quattro volte alla Scala per un totale di 58 recite, ma, nel Novecento, prima della edizione Callas del 1952, solo una volta nel 1938 con quattro recite.

A tutt’oggi, il posto stabile di queste opere nel repertorio sembra senza tramonto. Fanno eccezione le gluckiane che, in quanto antibelcantistiche, non fanno parte della tradizione operistica italiana.

Non c’è da stupirsi perciò se anche nel campo della musica operistica, il pubblico più curioso e avvertito fosse stanco delle trascrizioni romantico-veriste delle opere belcantiste e fosse rapito dalla rilettura autentica delle opere di Rossini, Bellini e Donizetti. Questo compito, se ne rendesse conto o meno, fu opera quasi esclusiva di Maria Callas.

Fedele d’Amico, in occasione della scomparsa della Diva, così scriveva sull’Espresso del 7 ottobre del 1977:

Il suo avvento, mentre spedì il soprano leggero al museo, riqualificò automaticamente tutto il mondo preverdiano, dimostrando che vocalizzi e belcanto possono essere persino veicoli di dramma; sebbene in senso ben diverso, è ovvio, da quello della melodia verdiana o wagneriana. Donde due conseguenze: restituire le poche opere preverdiane ch’erano in repertorio trent’anni fa, esempio la Norma, a se stesse, e riaprire al repertorio le molte dell’epoca che si reputavano superflue, o ineseguibili.

E non solo al repertorio, anche ai nostri cervelli. È dalla sua lezione, ormai accolta da due generazioni d’interpreti, che la storiografia musicale ha finalmente capito l’opera seria di Rossini, e tanto meglio che nel passato è pronta a intendere così Bellini o Donizetti come tanto Settecento. Evento senza precedenti: giacché molto spesso i grandi cantanti sono stati forze trainanti della creazione in atto, ma che spiegassero la storia agli storici non s’era dato ancora. Nel ’69 il “Radiocorriere” pubblicò un interminabile dibattito su di lei, presieduto dal sottoscritto, tra Visconti, Gavazzeni, Gara, Celletti e Gualerzi, che fu integralmente tradotto e pubblicato in Inghilterra e in America. Ma la Divina non ci degnò di un grazie. Finché ritrovandomi con lei un anno dopo, osai chiederle notizia di quelle venticinque colonne. “La prossima volta farai parlare me”, mi rispose seccamente, “chi deve spiegare sono io”. Non sapeva di averlo già fatto da un pezzo, e per sempre.

Un pensiero su “MARIA CALLAS IN MEMORIAM 2023”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *